Enzo Bianchi - Le vie della felicità





Un ricordo pesante un po' per tutti: il catechismo.

La noia prendeva il sopravvento e l'unica cosa che interessava era quello di fare cagnara in compagnia dei propri coetanei. Questo, più o meno, è l'immagine mentale che accompagna noi tutti al ricordo di quell'iter chiamato “iniziazione cristiana”.

Così anche questo Le vie della felicità di Enzo Bianchi mi ha un po' spaventato all'inizio. Pensavo d'essere al cospetto di un testo, se non banalmente catechistico, di granitica esegesi, indigestibile per uno che come me riesce a leggere solo nel caotico tragitto tra lavoro/casa e viceversa.

In più, per un passato da ribelle, confesso che è rimasta in me una parte d'insofferenza alla lezioncina di stampo vetero-catechistico.

In effetti, rispetto al lodato Ogni cosa alla sua stagione, questo libro è molto più incentrato sulla meditazione delle Scritture dando quasi subito il retrogusto di un discorso compiuto a lume di candela, mentre fuori piove, nel silenzio della propria anima, più che nel caotico turbinio della vita quotidiana.

Al centro dell'opera parte del rivoluzionario Discorso della montagna di Gesù, per l'esattezza quella porzione dedicata alle Beatitudini, lette, rilette e affrontate dal punto di vista di due evangelisti, Luca e Matteo.

Due testi solo all'apparenza uguali, che si discostano sensibilmente prendendo il colore e il sapore proprio della vita e della missione differente che i due discepoli andranno a svolgere in seno alle prime comunità cristiane (senza dimenticare che Matteo era al 100% ebreo, mentre Luca aveva alle spalle un background culturale meno granitico).

E qui mi ricredo per la prima volta: le Beatitudini e l'esegesi che Enzo Bianchi ne fa non possono prescindere da un'esperienza viva, appassionata e spesso sofferta della vita in mezzo alle altre persone. Punto a favore per spingere un po' più in là lo “spauracchio catechistico” di cui sopra. Ottimo.

E' un libro questo Le vie della felicità, se vogliamo, anche politico. O meglio, sono le stesse Beatitudini che non lasciano all'uomo altra possibilità di una scelta radicale, senza se e senza ma: la giustizia sociale, la povertà, la pace, inquietano i nostri sogni borghesi, ed è questa la loro prima benedizione.

Oltretutto, acuto il discorso di Bianchi riguardo la ricchezza e il denaro:

La chiesa ha spesso cercato di avere molte ricchezze, di possedere molto a fin di bene: questo però non solo è insufficiente ma è una grave contraddizione verso la povertà secondo il Vangelo. Basti ricordare in proposito l'inquietante parola rivolta da Satana a Gesù durante le tentazioni nel deserto […]. Chi dunque accumula ricchezze, anche a fin di bene, è un amministratore del demonio, lo sappia o meno.

E illuminante (almeno per la mia vistosa ignoranza) la parte dedicata ai puri di cuore, dove coraggiosamente si denuncia un'incomprensione sistematica del concetto di purezza, ossessivamente legato dalla Chiesa all'unica sfera sessuale (tanto da modificare l'ancestrale “Non commettere adulterio” con un fobico “Non commettere atti impuri”).

Ma capiamoci, questo testo rimane un libro di pura esegesi, meno commovente e “quotidiano” di Ogni cosa alla sua stagione, anche se forse il bello è proprio la sfida che ci chiama ad operare: riuscire a porre le Beatitudini nelle nostre giornate, nel nostro impegno quotidiano, nelle nostre fatiche, nell'attesa tra un treno della metropolitana e l'altro.

Confesso la mia fatica... capire come, secondo la promessa di Gesù, queste già oggi possono essere ricchezza per i sofferenti di ogni razza, luogo, lingua, religione, credo o filosofia. Una cosa che ancora adesso mi lascia grandi dubbi e mi scandalizza.

Ma è proprio questo il bello.
Accettare (e seguire) ciò che sembra scandaloso.
Tra le rivoluzioni, l'unica che per me vale la pena combattere.

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