Non credete alle recensioni. Semplicemente mentono.
Quella che potrebbe
risultare per me una tesi controproducente è la pura verità:
nessuno potrà mai sostituirsi al vostro insindacabile giudizio
usurpando il vostro parimenti insindacabile diritto di filtrare il
mondo come più vi aggrada. Fuggite quindi da chiunque non vi
accompagni alla fruizione diretta e immediata di ciò che volete
scoprire. Ci siamo capiti?
Bene.
Quindi non chiedetemi se “Milano rovente” sia o meno un libro
bello e degno d’essere comprato! Se vi piace la penna di Alessandro
Bastasi è ovvio che non possiate perdervi questo nuovo capitolo
delle avventure del Commissario Ferrazza. Se invece non lo conoscete…
provate, gustate, annusate le immagini che vi pianterà senza sosta
davanti agli occhi e assimilatele avidamente tutto d’un fiato.
Questo il mio unico consiglio.
Ora, però, visto che questa non può e non vuole essere – appunto - una recensione, uscite dalla stanza e lasciatemi solo con il nostro autore che da poco ha spento le settanta candeline e ancora una volta ha portato in libreria non un semplice romanzo, ma una sorta di enigma a forma di racconto. Sì, perché questo “Milano rovente” solo agli occhi degli stolti può apparire come un racconto noir come tanti altri. No. Serve osservarlo in controluce, serve unire i puntini, tocca insomma legare lo sfuggente Bastasi a una sedia e interrogarlo… con le buone o con le cattive.
Ora, però, visto che questa non può e non vuole essere – appunto - una recensione, uscite dalla stanza e lasciatemi solo con il nostro autore che da poco ha spento le settanta candeline e ancora una volta ha portato in libreria non un semplice romanzo, ma una sorta di enigma a forma di racconto. Sì, perché questo “Milano rovente” solo agli occhi degli stolti può apparire come un racconto noir come tanti altri. No. Serve osservarlo in controluce, serve unire i puntini, tocca insomma legare lo sfuggente Bastasi a una sedia e interrogarlo… con le buone o con le cattive.
Perché in questi
anni mi è capitato spesso d’intervistare, incontrare o ascoltare i
racconti di quelli che, come lui, hanno vissuto la loro giovinezza
nei turbolenti anni ’70, ma che a differenza sua hanno fatto scelte
di violenza politica finendo in “buchi neri di Stato”. Finita la
loro personalissima guerra, dalle loro parole colava solo un
irrimediabile scoramento: un dolore esistenziale che nessuna
eventuale posa machista da “reduce” poteva nascondere
all’occhio e all’orecchio attento.
Bastasi, ovviamente,
ha fatto scelte diametralmente opposte in quegli anni, ma rimane a
tutti gli effetti un figlio legittimo di quell’epoca e leggendo
questo “Milano rovente” con occhio parimenti allenato si riesce a
intravedere lo stesso struggente spaesamento di chi non comprende a
pieno questo assurdo presente nel quale viviamo. Uno spaesamento
curiosamente paragonabile a quello che si trova nelle parole di chi,
dopo una vita di lotte, di lutti e di celle isolate esce al sole,
accorgendosi che quella palla infuocata da una parte non illumina più
niente e dall’altra tutto brucia senza sosta (la Milano infuocata,
quasi mortifera, è un filo rosso di tutto il romanzo, molto simile
all’iconica quanto pervasiva “polvere” di Dickiana
memoria).
Questo romanzo, se
da una parte racconta un presente in maniera lucida e “informata
sui fatti” (vedasi la parte sul “boschetto di Rogoredo”), è
pervaso quindi da una stanchezza esistenziale assoluta, quella tipica
del guerrigliero che si arrende non perché privo di fegato o di
cuore, ma perché scopre dopo tutti questi anni che la guerra è
troppo grossa perché sia anche solo pareggiata, figuriamoci vinta.
Un po’ come quando il 4 aprile del 1981, in via Cavalcanti, ore
14.45, il sanguinario Mario Moretti, pluriomicida, braccato dagli
uomini della Digos, decise di non mettere mano alla fondina per
l’ennesima volta. Non aveva senso continuare a sparare. La guerra
era finita anche per un inafferrabile militare come lui. Quella
infinita stanchezza esistenziale, insomma, si rivede anche tra le
pagine di questo romanzo (e colpisce duro!).
Altro elemento
“inconsolabilmente ricorrente” nelle opere del Bastasi e che si
ritrova anche in questo libro è il difficile (o a tratti
impossibile) rapporto di fiducioso abbandono nelle braccia di chi,
per esperienza anagrafica, dovrebbe proteggerci da questo
inarrestabile mondo che si sgretola. Nello specifico questo elemento
si trova ricorrente quando nelle avventure del Commissario Ferrazza
fa capolino il suo amato suocero, una figura paterna, un rifugio
desiderato, ma al tempo stesso schivato quasi con imbarazzo.
Bastasi oggi è
padre, oggi è nonno ed è stato figlio in un’epoca nella quale,
spesso, la figura paterna non era proprio preparata culturalmente per
mostrare empatia davanti ai più basilari timori dei piccoli che si
affacciavano al mondo. Così anche il nostro amato Commissario non sa
proprio se troverà braccia esperte a proteggerlo e a guidare i suoi
incerti passi in una metropoli mortifera. Questa mancanza si fa quasi
lutto nella penna dell’autore.
“Insomma, non
hai mai sentito il desiderio, o la necessità, di entrare dentro il
cuore di questo anziano signore, di sentirti davvero parte della
nostra famiglia?”. Una domanda che il personaggio di fantasia
Guido Barbieri pone al Commissario Ferrazza, una domanda che a sua
volta, informalmente, il poliziotto sembra porre (con rabbia) al suo
vero padre e creatore, cioè Alessandro Bastasi.
E nel mentre vi
racconto questo gioco di rimandi, di specchi, di irriducibili crepe
generazionali, di lacerante compenetrarsi tra piani di finzione e di
realtà, Alessandro Bastasi si è divincolato per l’ennesima volta
dalla nostra presa inquisitoria fuggendo dalla cella-recensione nella
quale volevamo colpevolmente chiuderlo.
Sì, perché anche
questa alla fine dei conti è una recensione e il Bastasi c’è
appena sfuggito.
“Ferrazza,
Ceolin, ve l’avevo detto che la trappola non avrebbe funzionato,
diramate l’identikit….. trovatelo! Ndemo tosi!”
Commenti
Posta un commento