Piero Colaprico Pietro Valpreda - Quattro gocce d'acqua piovana




Le labbra si serrano in una smorfia e la testa ciondola a sinistra e a destra: giochiamo a che ci siamo incontrati fuori dalla sala cinematografica e questo Quattro gocce d'acqua piovana sia un film. Questa sarebbe la mia risposta al tipico "bello?"... capendo che alla fine un responso assoluto è difficile da presentare.

Ma andiamo per gradi: la penna dietro questa opera è quella congiunta di Pietro Valpreda e di Piero Colaprico, il primo non ha bisogno di presentazioni essendo un protagonista (suo malgrado) della Storia italiana, il secondo è un noto giornalista di cronaca nera, colui che coniò la parola "tangentopoli".

Siamo nella Milano anni '80 ma subito si corre ai giorni nostri: Pietro Binda, una vita nell'Arma, è ora in pensione, seduto su una panchina nel suo paesello natale. Dall'albero delle castagne matte cadono quattro gocce sul libro che sta leggendo, gli occhi si spalancano e la soluzione di un vecchio caso irrisolto di vent'anni prima esplode nella mente del vecchio carabiniere.

Così parte il racconto di un omicidio e delle relative infruttuose indagini: un distinto cadavere rinvenuto in un palazzo signorile, accanto al corpo, tracciato con il sangue, un rebus. L'unica consapevolezza dell'allora giovane Binda è che questo segno disperato non sia un caso (la vittima era un appassionato enigmista, collaboratore a tempo perso con una rivista di settore).

Per il resto buio: vita regolare, rapporti positivi, persona amata, bella fidanzata, ammirazione dagli alunni e colleghi (era un professore). Ma è proprio tutto così pulito il passato della vittima? La sua altra passione per i mobili antichi potrebbe averlo messo nei guai? Cosa nasconde la sua passione per gli enigmi? Che diamine ci fa una foto della compagna, nuda, nella stanza del distinto morto?

Lasciamo però da parte gli interrogativi e facciamo chiarezza almeno sulle qualità di questo libro: la lettura scorre discretamente bene e la curiosità tiene alta l'attenzione del lettore (anche se mi sfugge come si possa scrivere un libro a due mani, mah...).

Bellissime le parti che potremmo definire "sentimentali", sia quando l'amore è professato tra personaggi (toccante il racconto della malattia della moglie di Binda), sia quando a chiamarlo in scena è la passione per una città, Milano, qui raccontata sul filo teso tra passato (le trattorie, la vecchia Brera) e il nuovo (la città da bere, le ricche vetrine a sostituire le botteghe).

Ma, come dicevo all'inizio, non tutto lascia così soddisfatti: manca l'azione poliziesca. Alle volte si prega perchè un sospettato faccia un passo falso, perchè dal nulla qualcuno tiri un cazzotto al Binda. Niente. Le indagini sono e soprattutto rimangono in un vicolo cieco, abbastanza sonnolente. Un racconto rassegnato, troppo.

L'altro neo è la soluzione del caso (che ovviamente non vi svelerò). Troppi troppi troppi luoghi comuni messi assieme, anche se poi alla fine forse la speranza che non si avverassero (perchè si potevano prevedere ahimé con un po' di fantasia) ha tenuto alta la curiosità, facendo funzionare il tutto.

Insomma, il libro non è male, ma lascia un leggero amaro in bocca. Soprattutto se si ha come punto di riferimento della goduria letteraria noir/poliziesca/gialla alla milanese l'indimenticabile Scerbanenco.

Però, forse, chi si accontenta gode.
E allora godiamoci questa lettura.

Ma forse, come si dice a Milano, quella del Binda: 

Piutost che niènt, l'è mei piutost

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