Stanchezza a misura di barbone

Splendido scatto, colto da Antonio Cagnazzo, senza fissa dimora della Stazione
inserito nella raccolta Le Forme dell'invisibile
© Antonio Cagnazzo


Sono un po’ stanco, di quella stanchezza accesa e mantenuta dalla sfiducia, acerrima nemica della fede che invece dovrebbe muovermi come cristiano.

Dicevo che sono stanco, ma non per il tempo passato ma per quello che s’impiega per schiantarsi contro un muro di risposte negative: faccio il volontario da oramai sette anni nella Stazione Centrale di Milano e la situazione continua sempre di più a peggiorare.

Sono finito con i “barba” (come un barba, è inutile negarlo) proprio alla fine di quella carneficina chiamata “eroina”. Una carneficina che uccideva all’anno centinaia di uomini e donne che avevano scelto la Stazione come propria casa. Una carneficina che però, indirettamente, magari controvoglia, obbligava Milano a prendersi cura dei suoi “figli zombie” che ogni giorno, per ricercare la dose, rubavano, rapinavano, aggredivano o semplicemente svenivano in overdose nel bel mezzo di una strada affollata di passanti.

Questa emergenza aveva spinto la Milano con il cuore in mano (e la sua controparte politica dotata di portafoglio) a sviluppare delle risposte ai problemi di chi vive in strada, di certo nulla di così risolutivo, ma comunque già un qualcosa che dalle mie parti è sempre meglio di niente.

Adesso, dopo sette anni, secondo me, siamo regrediti, o meglio, siamo esplosi in un numero infinito di associazioni, ronde di beneficenza, centri, centrini e paralumi, perdendo però il contatto proprio con quella pragmaticità tipica del nostro essere milanesi (leggasi, vedo problema "A" e rispondo con soluzione "B", e se non c'è me la invento).

E allora ecco che a Milano (grazie al cielo) ci sono mense che sfamano ad ogni ora i senza fissa dimora, ma se poi si chiede di trovare un posto in un dormitorio, un tetto, un letto, ecco che inizia il calvario.

Non ci sono scappatoie: liste d’attesa lunghissime, esami del sangue da fare, colloqui con dottori e assistenti sociali e in generale altri passaggi che un utente medio del mio centro non è in grado fisicamente e psicologicamente di sostenere.

Per non parlare dei privi di regolare permesso di soggiorno: dei veri fantasmi, inaiutabili, se non durante l’inverno, quando i dormitori attuano “l’emergenza freddo” anche per i clandestini.

Ma il problema non lo sento addosso per la massa di gente che incontro, nella sua intierezza. Ovvio che dopo sette anni ho capito che non posso “salvare” tutti, visto che a fatica riuscirò (forse) a salvare me stesso.

Vado in crisi quando però, quella volta, magari ogni quattro mesi, che dalla massa di utenti del Centro esce l’utente che ti sbatte sotto gli occhi una delle varie semplici richieste che di solito caratterizzano l’essere umano.

Ho sonno, non dormo da quattro giorni, potrei avere un posto in dormitorio?, oppure ho problemi personali, vorrei essere seguito da un struttura che mi ospiti e mi faccia fare qualcosa invece di stare a cazzeggiare per la Stazione.

Risposta tipica da dare, tratta dal manuale del volontario della Centrale: “è un casino!”

E lo è veramente. Lo è davanti ad una burocrazia che se è incomprensibile per noi “sani”, figuriamoci quanto può essere amica degli ultimi, dei malati, dei disperati.

Ti chiedono un materasso e un cuscino e noi rispondiamo con una lista d’attesa, con le carte di un assistente sociale, con mille parole e trecento telefonate.

Sono stanco, ma non mi arrendo, la Stazione è dura e il lavoro è duro a sua volta.

Vorrei solo poter cambiare qualcosa.

...cambiare la mia Milano “con il cuore in mano”…

…chissà dove è finita…

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